Il reato di “maltrattamenti in famiglia” può essere compiuto anche dall’insegnante della “materna”

Il reato di “maltrattamenti in famiglia” può essere compiuto anche dall’insegnante della “materna”
08 Maggio 2017: Il reato di “maltrattamenti in famiglia” può essere compiuto anche dall’insegnante della “materna” 08 Maggio 2017

Contrariamente a quanto potrebbe far presumere la rubrica dell’art. 572 c.p., denominata “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, l’oggetto della tutela penale apprestata da tale norma non è rappresentato dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica dei soli soggetti facenti parte di un nucleo familiare.

Vittima dei maltrattamenti può essere anche una persona con la quale il reo non abbia un vincolo di parentela civile o naturale, ma sia sottoposta alla sua autorità ovvero le sia stata affidata, per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Ulteriore presupposto del delitto in esame è la reiterazione nel tempo di atti di violenza fisica ovvero psicologica, tali da cagionare nella vittima un disagio psicologico e morale continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita.

Ciò significa, quindi, che anche l’uso sistematico della violenza, fisica o psichica, da parte di un educatore nei confronti del soggetto allo stesso affidato potrebbe configurare il delitto de quo.

Ed è proprio in tal senso che si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, con la sentenza n. 11956/17 depositata in data 13 marzo 2017.

Nel caso di specie, un’insegnante di scuola materna aveva impugnato la sentenza della Corte di Appello con cui era stata condannata per aver posto in essere specifici e reiterati atti di sopraffazione, anche violenti, nei confronti dei piccoli affidatile.

I Giudici di Piazza Cavour, anzitutto, hanno ribadito come le dichiarazioni provenienti da bambini ancora in tenera età non possano per ciò stesse essere considerate inaffidabili, ma, semmai, debbano essere “sottoposte ad vaglio particolarmente attento e circostanziato da parte del giudicante”.

Nel caso in esame, le stesse devono ritenersi affidabili in quanto hanno trovato riscontro negli “evidenti e inequivoci segnali di disagio manifestati dai minori in concomitanza delle lesioni tenute dall’imputata” e puntualmente descritti dai genitori dei minori stessi.

Inoltre, la prova della sussistenza delle contestate vessazioni e sopraffazioni è emersa altresì dalle “chiare indicazioni dai minori medesimi date, anche attraverso i giochi (…) in cui il minore trasferisce anche i propri vissuti traumatici o non del tutto positivi al fine di elaborarli e comunicarli”.

Ciò posto, la Corte di Cassazione ha ribadito come “l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso di mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti” (cfr., in senso conforme, Cass. Pen.,  Sezione VI, sent. 53425/14).

Pertanto, la condotta della maestra di scuola materna, i cui metodi siano improntati ad un ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica, non possedendo i connotati propri di un processo educativo ed impedendo di ottenere il risultato di armonico sviluppo della personalità del minore “sensibile ai valori di pace, di tolleranza e di connivenza”, va qualificato nel più grave delitto di “maltrattamenti in famiglia”.

 

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